Il maestro Djü-Chi, a quanto si narra,
era di carattere mite e tranquillo,
e così discreto da rinunziare del tutto
alla parola e alla dottrina,
poiché la parola è apparenza,
ed egli era scrupolosamente intenzionato
a evitare ogni apparenza.
Mentre scolari, monaci, novizi,
volentieri si abbandonavano
a un forbito eloquio,
scintillante d’intelligenza,
sul significato della realtà, sul bene supremo,
egli vigilava in silenzio
per evitare ogni eccesso.
E quando si rivolgevano a lui
per fargli domande frivole o serie
sul senso delle antiche scritture,
sui nomi di Buddha,
sull’illuminazione, sull’inizio
e la fine del mondo, egli restava in silenzio:
solo lievemente indicava col dito in alto.
E il segno tacitamente eloquente di quel dito
era sempre più profondo e ammonitore:
esso parlava,
insegnava, lodava, puniva,
puntava così originalmente
al cuore della realtà e della verità,
che da allora,
più di un discepolo
comprese il cauto sollevarsi
di quel dito, tremò, e si risvegliò.